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Motivazione scolastica

L’intervento motivazionale breve per la gestione della motivazione allo studio,

in Bagaglini M., “Accogliere, valutare, orientare, includere: i percorsi sperimentali per la percezione del drop out formativo”, Infinito Edizioni, Roma 2007, Lepri F.

Introduzione

 

La motivazione allo studio è un fattore cruciale nel determinare la prestazione dell’alunno nel suo percorso scolastico, sopratutto nella fascia adolescenziale. Mi propongo di presentare un modello di intervento fruibile dagli insegnanti, che sia calibrato sull’assetto motivazionale degli alunni in difficoltà. L’obiettivo è quello di accrescerne la motivazione allo studio mediante la gestione della comunicazione da parte dell’insegnante, nella prospettiva che la stessa relazione possa essere un fattore protettivo dal rischio di insuccesso scolastico.

Nel corso della mia esperienza professionale ho riscontrato personalmente che molti insegnanti presentano uno scarso senso di efficacia personale nel risolvere le problematiche connesse con alunni il cui rendimento scolastico non raggiunge la norma. Le soluzioni che vengono proposte dalla letteratura di riferimento per risolvere il problema della motivazione allo studio, solitamente risultano essere, per quanto ben articolate ed approfondite, troppo complesse per poter essere utilizzate in modo efficace dagli insegnanti. Lo studio e la ricerca pedagogica producono risultati significativi, purtroppo, una difficoltà che è ancora parzialmente insuperata è la mediazione tra aspetti teorici ed applicazione da parte di chi, trovandosi ad operare sul campo, deve applicarne i contenuti. Fornire agli insegnanti dei modelli operativi di facile utilizzo e delle strategie di fronteggiamento delle problematiche legate alla demotivazione allo studio, permette ai medesimi di incrementare anche il proprio senso di efficacia verso l’insegnamento, il quale può essere correlato con un aumento del successo scolastico degli studenti (Ashton e Webb, 1986).

Il modello epistemico sul quale è basato il presente intervento ha il suo fondamento nella possibilità di trovare un accoppiamento efficace tra ricerca e teoresi psico-pedagogica da un lato, ed applicazione pratica dall’altro, secondo il costrutto della “complessità di accoppiamento” (Tononi et al, 1997): due sistemi devono avere un grado di complessità simile per potersi scambiare informazioni ed avviare un processo di comunicazione efficace, o almeno devono condividere una percentuale sufficiente di elementi comuni. Inoltre, la qualità di una prestazione dipende dall’applicazione di un intervento che abbia un grado di complessità ottimale rispetto al sistema sul quale viene applicato; un intervento a bassa complessità non produce alcun risultato, mentre uno eccessivamente complesso rischia di produrre sovraccarico, caos e risultati casuali se non, addirittura, l’impossibilità stessa di essere attuato con rigore.

Il modello di base che verrà utilizzato nasce dagli studi sulla motivazione al cambiamento effettuati da James Prochaska e Carlo DiClemente (1982), i quali applicano una modalità eclettica di ricerca su quali siano le fasi principali che segue il processo motivazionale e di cambiamento di una persona di fronte ad un problema. Gli autori coniano il “Modello Transteorico” (Prochaska e DiClemente, 1986) che nasce da un’analisi comparativa tra i diversi sistemi di psicoterapia per giungere ad un modello integrato dei processi di cambiamento; viene, quindi, formulata una teoria generale del cambiamento applicabile sia ai cambiamenti spontanei che a quelli conseguenti ad un intervento specialistico. Il modello, studiato ed applicato con successo ai problemi di dipendenza da sostanze, attualmente inizia ad essere applicato anche in altri ambiti.

Questo articolo intende essere uno dei primi tentativi di allargare l’applicazione di tale modello in ambito scolastico, per valorizzarne le potenzialità di intervento sulle difficoltà legate alla carenza o, addirittura, all’assenza di motivazione allo studio.

 

 

I fattori della motivazione al cambiamento

 

Il problema al quale intendiamo riferirci è quello di una carente motivazione allo studio, quando questa sia la causa di un insufficiente profitto scolastico. Per un adolescente inserito nella scuola secondaria di secondo grado, il fatto di non avere un profitto sufficiente può essere considerato un problema a tutti gli effetti, almeno per il contrasto che si genera con gli obiettivi formativi dell’istituzione scolastica sanciti dalla legge.

La motivazione al cambiamento è un concetto polisemico, ma sono stati individuati da Prochaska e DiClemente i fattori principali che la contraddistinguono. La valutazione dei fattori motivazionali che determinano la spinta al cambiamento viene effettuata considerando tre aspetti: il primo fattore è legato a quanto forte si percepisce l'insoddisfazione per la propria condizione, mediante una valutazione della percezione delle proprie contraddizioni interne, ossia della frattura interiore (Miller e Rollnick, 1991; 2002) basata sul costrutto della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957).

Il secondo fattore si riferisce a quanto una persona ritenga di essere in grado di cambiare, in base alla percezione della fiducia nelle proprie possibilità, ovvero secondo il costrutto dell’autoefficacia percepita (Bandura, 1977).

Il terzo fattore da considerare è quanto la persona si senta pronta e disponibile a cambiare, dal termine inglese readiness to change, e viene valutato dalla collocazione della persona nel modello degli stadi del cambiamento (Prochaska e DiClemente, 1986).

Analizziamo ora questi fattori singolarmente.

 

 

La dissonanza cognitiva

 

La teoria della dissonanza cognitiva è stata elaborata da Leon Festinger (1957), ed assume che le persone abbiano bisogno di coerenza logica tra le proprie idee. Se un individuo si trova in questa condizione, allora si trova in una situazione soddisfacente, definita consonanza; ma se due o più rappresentazioni cognitive contrastano tra loro, allora egli si trova in una situazione di dissonanza, che genera uno stato di spiacevole tensione. Secondo Festinger, una naturale tendenza della mente umana è quella di ridurre gli stati di dissonanza. Non ha senso avere due opinioni opposte sullo stesso argomento. Quando ci si trova in una condizione di dissonanza, si genera una tensione verso la consonanza che sarà tanto più forte quanto più valore è attribuito alle rappresentazioni in contrasto. Questa condizione viene definita da Miller e Rollnick frattura interiore (1991; 2002). Se prendiamo in considerazione due rappresentazione del tipo «Io voglio andare bene a scuola» e «Sto andando male a scuola» ci troviamo in un’evidente condizione di dissonanza. La consonanza tra queste rappresentazioni può essere raggiunta o con una soluzione sul piano comportamentale, vale a dire modificando il comportamento ed iniziando ad andare bene a scuola, oppure con una soluzione sul piano cognitivo, ossia modificando la rappresentazione e cambiando opinione sull’andare bene a scuola, nel senso che non interessa più il fatto di andare bene a scuola. Per far rientrare la dissonanza è, quindi, necessario attivare un processo decisionale che permetta di orientarsi verso una delle due alternative e può capitare di bloccarsi in una condizione di ambivalenza (Janis e Mann, 1977) oscillando alternativamente tra i due poli. La tensione che si genera tra le alternative, cioè la dissonanza stessa, genera una tensione motivazionale verso la consonanza che può essere utilizzata per dirigere l’alunno verso la soluzione ritenuta migliore. Un’utile strumento per dirigere il processo decisionale valutando gli aspetti positivi e negativi, gli atteggiamenti, i valori, gli ideali e le contingenze, è la bilancia decisionale (Velicer et al., 1985), che può essere considerata un organizzatore di tendenze non ancora inquadrate in un progetto.

Una critica mossa alla teoria di Festinger è quella proveniente dalla teoria della neodissonanza elaborata da Steele e Liu (1981) che potrebbe, comunque, essere considerata più un approfondimento che una critica vera e propria. Secondo gli autori, alla base del conflitto tra rappresentazioni mentali vi è il concetto di Sé, così come viene percepito dal soggetto. Il Sé può essere definito come un insieme di atteggiamenti, valutazioni e giudizi che abbiamo di noi stessi. Tutto ciò che costituisce un pericolo per l’immagine ideale che abbiamo del nostro Sé diviene una minaccia al sé e genera una tensione che ha lo scopo di ridurre questa situazione di conflitto per giungere ad una condizione di consonanza. Un comportamento non consono al nostro Sé ci restituisce un’immagine incompatibile di noi stessi, nel senso che viene a crearsi una contraddizione tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo nel presente, una sorta di conflitto tra Sé ideale, basato sul concetto di Sé, e Sé reale, basato sul nostro comportamento attuale.

 

 

L’autoefficacia personale percepita

 

Le persone cercano di esercitare un controllo sugli eventi della vita facendo in modo che si realizzino quelli desiderati e non quelli indesiderati. Questo fattore caratterizza quasi tutte le azioni umane in quanto produce dei vantaggi, due in particolare: rende gli eventi prevedibili e permette di affrontarli in modo competente.

Poiché l'incapacità di esercitare un’influenza sugli eventi crea ansia e può andare contro la sopravvivenza, diviene evidente che l'abilità di favorire eventi auspicabili prevenendo quelli indesiderati è un potente incentivo verso la capacità di controllo.

Secondo Albert Bandura,

 

 “il livello di motivazione, gli stati affettivi e l’azione si basano su ciò che le persone credono più che sulla realtà oggettiva delle cose” [1]

 

Il fattore principale è la convinzione riguardo le proprie capacità causative; l’agentività umana (human agency) è la facoltà di far accadere le cose, di intervenire sulla realtà, di esercitare un potere causativo.

Con il concetto di autoefficacia percepita, Bandura definisce come la fiducia e le aspettative che una persona ha di padroneggiare con successo determinate situazioni possa generare una percezione di capacità. Non si intende una generica fiducia in se stessi, ma una vera e propria convinzione di poter padroneggiare specifiche situazioni, che configura un’organizzazione di autoregolazione che si sviluppa nel corso degli anni e che è suscettibile di essere modificata nel corso del tempo (Gennaro, 2004).

La motivazione viene definita come un processo attraverso cui il comportamento orientato verso una meta è avviato e sostenuto dalle aspettative di risultato, dal senso di efficacia nella capacità di realizzare tali azioni e dall’autovalutazione dei progressi che si ottengono durante il percorso (Bandura, 1993).

Il rapporto tra l’autoefficacia e la motivazione al cambiamento è piuttosto singolare: un livello di autoefficacia alto può ostacolare l’uscita da una situazione problematica in quanto il soggetto può essere convinto che in qualsiasi momento gli è possibile cambiare la situazione, ma determina anche una chiusura agli stimoli provenienti dall’esterno. Non è però prevedibile il momento in cui deciderà di avviarsi al cambiamento, che potrebbe non avvenire mai. Un livello di autoefficacia basso, invece, può incrementare l’apertura verso l’esterno per ricercare soluzioni alla propria difficoltà e può incrementare l’intensità affettiva con la quale viene percepita la difficoltà. In questo caso vi è una notevole apertura alla persuasione ed a nuovi modelli di comportamento, qualora questi si prospettino come possibilità di cambiare lo status quo.

La valutazione dell’autoefficacia riguardante la possibilità di cambiare un comportamento disadattivo, risulta essere uno degli elementi fondamentali per calibrare l’intervento motivazionale (Miller e Rollnick, 2002).

 

 

Gli stadi del cambiamento

 

La valutazione della motivazione al cambiamento è un aspetto centrale per la produzione di cambiamenti nei portatori di disagio psicologico. Il “Modello Transteorico” di Prochaska e DiClemente (1986) indica come sia necessario adeguare il tipo di intervento sulla motivazione al cambiamento valutandone gli stadi caratteristici attraverso i quali il soggetto transita ed il grado di disponibilità al cambiamento.

L’integrazione tra stadi e processi del cambiamento fornisce una guida interessante per chi vuole intervenire sui problemi derivanti dalla demotivazione allo studio: una volta individuato lo stadio in cui si trova il ragazzo, potrà essere adottata una strategia appropriata applicando le tecniche di comunicazione previste dall’“Approccio Motivazionale” (Miller e Rollnick, 1991; 2002) per far sì che il processo di cambiamento abbia il suo corso. L’evoluzione della motivazione e del conseguente cambiamento del comportamento osservabile, procede più rapidamente quando gli interlocutori sono focalizzati sullo stesso stadio e privilegiano gli stessi processi. Se, chi dirige il rapporto applica strategie relative ad uno stadio diverso rispetto a quello in cui si trova il cliente, è molto probabile che si verifichino dei comportamenti di resistenza o si rischia addirittura di rinforzare il comportamento disadattivo, è noto, infatti, l’effetto boomerang (teoria della reattanza, Brehm e Brehm, 1981).

Il Modello Transteorico è stato integrato nell’Approccio Motivazionale, che ne ha strutturato la prassi operativa: esso mira al superamento dell’ambivalenza che nasce dall’insoddisfazione derivante dalle proprie contraddizioni interne, valutando come fattori fondamentali la percezione di una frattura interiore, la percezione della prontezza al cambiamento ed il percepirsi in grado di cambiare.

Può essere difficile cambiare, sia da soli sia se guidati da altri, se non è scattata la decisione e l’impegno a cambiare; invece si può procedere anche da soli nel cambiamento se è presente la giusta motivazione.

In questo modello, il cambiamento va inteso come un processo che attraversa una serie di fasi, una struttura stadiale che si dispiega lungo un continuum evolutivo e che viene percorsa in quasi tutti i processi di cambiamento. Questa struttura può essere paragonata agli stadi dello sviluppo, dove ognuno di essi rappresenta un momento preciso dell’evoluzione personale. Prochaska e DiClemente (1984) hanno verificato come essi siano presenti sia in ambito clinico che al di fuori di esso; è interessante notare che le persone percorrono questa sequenza di stadi più volte prima di raggiungere un nuovo equilibrio adattivo che possa essere definito stabile e duraturo. Questi stadi rappresentano sia dei periodi di tempo, sia un insieme di compiti indispensabili per il passaggio alla fase successiva.

Il progredire all’interno degli stadi del cambiamento viene descritto come un processo graduale che segue un percorso circolare e, se non si giunge nel punto di equilibrio desiderato che corrisponde allo stadio del mantenimento, verranno ripercorsi nuovamente gli stessi stadi con la stessa sequenza.

Gli stadi vengono così definiti:

1) Precontemplazione:

in questo stadio la persona non prende neanche in considerazione la possibilità di un cambiamento e non vede alcun motivo per modificare qualcosa. Non vi è percezione di alcun problema, non vi sono stimoli o effetti indesiderati, né situazioni problematiche che dall’esterno possano spingere a percepire la presenza di una difficoltà su cui porre l’attenzione. La persona non percepisce che il suo comportamento può produrre dei danni a sé o agli altri, né ora né in seguito. Un fattore importante può essere, invece, l’assenza di riconoscimento di una reale situazione problematica. Se in questo stadio è effettivamente presente un problema, l’autoefficacia nelle proprie possibilità di fronteggiarlo potrebbe essere elevata, rimandando il momento in cui si intraprende un’azione di mutamento, mentre la frattura interiore potrebbe essere assente.

2) Contemplazione:

la persona ha la consapevolezza, per quanto superficiale, che sia presente un problema; se ne può rendere conto da sola o può essere stata sensibilizzata da altre persone. Inizia a rendersi conto della presenza di una difficoltà. In questo stadio si presenta il classico ondeggiamento tra desiderio di cambiamento ed il suo rifiuto, tra la preoccupazione responsabile e le giustificazioni; è qui in atto una forte ambivalenza che limita una presa di decisione definitiva e che può bloccare il cambiamento all’interno di un’oscillazione perdurante. Il pensiero si può bloccare all’interno di una continua elaborazione del rapporto tra costi e benefici, tra desiderio di cambiare e desiderio di perdurare nel comportamento disfunzionale. L’autoefficacia è nella posizione più bassa, mentre la frattura interiore cresce rispetto allo stadio precedente.

3) Determinazione:

viene definita come “una finestra di opportunità che si apre verso il cambiamento” (Miller e Rollnick, 1991; trad. it. 1994, p. 30), è il momento in cui si pianifica come poter fare per cambiare e si fanno i primi tentativi verso il cambiamento. Viene attivamente ricercata una soluzione, che può facilmente essere proposta dall’esterno. L’autoefficacia inizia a risollevarsi, la frattura interiore è decisamente intensa. Se viene effettuata la scelta per il cambiamento e si dà avvio alle prime azioni concrete, si giunge allo stadio successivo.

4) Azione:

vengono concretamente sperimentati i risultati delle azioni intraprese nella fase precedente e questi sforzi, se iniziano a produrre dei successi, rinforzano ulteriormente la percezione della propria efficacia e le aspettative di poter cambiare definitivamente. Se il cambiamento è raggiunto e inizia ad essere mantenuto, la frattura interiore perde la sua intensità e si passa alla fase successiva.

5) Mantenimento:

quando è stato ottenuto il cambiamento, bisogna cercare di mantenerlo e di evitare la ricaduta nel comportamento che si voleva evitare. Possono verificarsi dei cedimenti minori o delle vere e proprie ricadute. Potrebbero occorrere delle strategie ed abilità per mantenere la situazione attuale, differenti da quelle utilizzate per produrre il cambiamento.

6) Ricaduta:

nel caso in cui si ritorni al comportamento disfunzionale precedente, si ricomincia il percorso dagli stadi precedenti. Se la persona viene aiutata ad evitare lo scoraggiamento e la si tiene vicina alla contemplazione del problema e la si aiuta a rinnovare la determinazione, è possibile che ricominci il percorso da una fase avanzata, ad esempio dalla determinazione, invece che tornare ad una fase di precontemplazione dove è più difficile dare avvio ad un processo efficace di miglioramento della situazione disfunzionale.

 

 

La gestione della motivazione al cambiamento

 

Le modalità di intervento sulla motivazione previsto dall’Approccio Motivazionale possono aiutare le persone a riconoscere i loro problemi attuali o potenziali legati alla persistenza di un comportamento disadattivo e a mettere in atto le strategie che possono modificare quel comportamento (Miller e Rollnick, 1991).

Questo tipo di intervento prevede principalmente un insieme di tecniche di colloquio e di gestione della comunicazione. É possibile utilizzarlo con coloro che assumono posizioni ambigue nei confronti della propria necessità di cambiamento e che, nonostante i disagi e le difficoltà che si trovano a vivere, persistono in una condizione di ambivalenza nei confronti del problema.

Gestire una situazione relazionale come quella tra alunno ed insegnante iniziando dagli aspetti motivazionali, vuol dire aiutare il ragazzo a prendere coscienza del problema del profitto e della partecipazione alle attività scolastiche, a superare le eventuali ambivalenze e ad indirizzarlo sulla via del cambiamento, della partecipazione e dell’interesse intrinseco. Talvolta, questo tipo di intervento può bastare da solo a far emergere le risorse e le abilità necessarie per iniziare un percorso di cambiamento.

La motivazione non va vista come un tratto di personalità o come un fattore geneticamente predeterminato, ma come una disposizione, un desiderio, una dimensione che si costruisce nel rapporto tra organismo e ambiente. Può essere definita uno stato interno che spinge all’azione, un attivatore del comportamento influenzato da fattori esterni, come tale può essere modificato dal rapporto con un adulto che diviene il motivatore di una disposizione al cambiamento. L’accento passa “dall’aggettivo passivo motivato al verbo attivo motivare” (Miller e Rollnick, 2002; trad. it. 2004, p. 33).

Se è possibile avere fiducia in un soggetto attivo capace di partecipazione e di autodeterminazione, per il quale è necessario un elevato grado di consapevolezza di se stesso, dell’ambiente e dei propri processi decisionali, l’intervento va primariamente effettuato sulle caratteristiche personali e sulle risorse dei soggetti per facilitare “la strutturazione e l’attivazione di autonomi e consapevoli processi decisionali” (Di Fabio, 1998, p. 247).

Verrà ora fornita una sintesi del modello motivazionale di base.

L’insegnante si può trovare di fronte ad adolescenti con un basso profitto scolastico e senza motivazione allo studio; questi ragazzi si trovano in una condizione di precontemplazione del problema costituito dal non adempiere agli obblighi istituzionali della scuola, non si rendono conto o non vogliono vedere le difficoltà che possono essere legate a questo comportamento, sia nel presente che nel futuro. Se lo studente non viene a trovarsi in una condizione di difficoltà, non inizierà a desiderare di avere un profitto nella norma. Queste difficoltà possono essere costituite da una rappresentazione ideale di se stesso diversa da quella agita nella realtà (Steele e Liu, 1981), dal ricevere delle punizioni o dal fatto che gli effetti negativi superino quelli positivi creando dissonanza (Festinger, 1957); in sintesi il fattore che può essere decisivo in questa fase è il percepire razionalmente che la situazione attuale non paga a causa degli effetti negativi da essa causati. In questo senso, anche un intervento proveniente dall’esterno, come il biasimo dei genitori, la disistima degli amici, il desiderio di essere all’altezza dei compagni, le valutazioni negative dei docenti ecc, possono servire ad attivare il processo di cambiamento portando l’assetto motivazionale verso lo stadio della contemplazione.

 

“La motivazione propriamente detta, è la percezione consapevole di uno stato di necessità nell’individuo al quale rispondere con un comportamento specifico”[2].

 

Senza avere difficoltà o esigenze non si genera motivazione. In questa fase, l’insegnante che interviene deve prestare la massima attenzione alla qualità della relazione e sviluppare un buon rapporto utilizzando l’empatia, l’ascolto riflessivo, dimostrando rispetto verso i tempi naturali del ragazzo. L’accettazione della condizione motivazionale dello studente è importante per non correre troppo e non aumentare la pressione in modo errato. Va mantenuto il contatto e va evocata la consapevolezza di quale sia la condizione di disagio, cercando di far emergere i dubbi e le perplessità, ma non bisogna forzare troppo l’intervento nel senso che un tentativo diretto di persuasione evocherebbe più resistenze che benefici. É noto l’effetto della reattanza (Brehm e Brehm, 1981), per la quale se un individuo percepisce in una comunicazione una minaccia per la propria libertà tenderà a rafforzare la sua posizione iniziale, e l’effetto definito trappola della persuasione che è dovuta al fatto che, mentre difendiamo pubblicamente la nostra posizione, ci convinciamo ancor di più dei motivi che ci fanno persistere in essa. Secondo la teoria dell’autopercezione di Bem (1972), inferiamo i nostri stati interni dai nostri comportamenti, cioè parlare e sostenere le proprie idee le rafforza. In ogni caso va evocato il riconoscimento del problema e le preoccupazioni ad esso legate.

Se uno studente si trova nella fase della contemplazione, ovvero nel momento in cui è nel pieno del conflitto (elevata frattura interiore) e non percepisce ancora di quali risorse può disporre né sa se potrà farcela con le sue forze, è facile che possa essere influenzato dall’esterno, da una figura autorevole come quella dell’insegnante. In questo stadio è utile comprendere quali siano i fattori che costituiscono l’ambivalenza effettuando una valutazione dei costi e dei benefici, ad esempio utilizzando il metodo della bilancia decisionale (Velicer et al., 1986). La focalizzazione principale verte, quindi, sull’incrementare la dissonanza causata dalla situazione attuale, che determinerà un incremento della spinta motivazionale e della percezione di quanto sia impellente la necessità di cambiare.

Nel momento in cui l’adolescente si viene a trovare nella fase della determinazione, la strategia di un insegnante deve modificarsi e divenire più direttiva, cosa che, negli stadi precedenti, avrebbe potuto essere controproducente. Vanno quindi fornite informazioni sulle possibili strategie per effettuare il cambiamento, vanno proposte opportunità praticabili e si può iniziare a collaborare nell’attuazione dei passi necessari, intervenendo attivamente nei momenti di stallo. É lecito effettuare insieme un piano di azione, scegliere degli obiettivi ben formati dopo aver elicitato quali siano i bisogni, le necessità, le risorse personali. Inoltre va anche elaborata la possibilità di non cambiare, per tenere sotto controllo residui di ansia che potrebbero compromettere il processo.

Giunti nella fase dell’azione, i cambiamenti si sono realizzati anche se non si può dire che si siano stabilizzati. Essi vanno sostenuti e confermati da esperienze di padroneggiamento e da successi, vanno rinforzati grazie all’elaborazione cognitiva e grazie all’accentuazione dei benefici che sono intercorsi.

Se la situazione rimane stabile ci troviamo nello stadio del mantenimento. Oltre a rinforzare la condizione di equilibrio ormai consolidata, vanno analizzate e prevenute le ricadute in uno stato precedente. Va esplicitata comunque la possibilità che questo cambiamento possa essere fragile, quindi si può rendere manifesta la percezione della vulnerabilità, per anticipare i segnali che potrebbero manifestare una regressione. Si possono, quindi, preparare piani e strategie appropriate a fronteggiare le tendenze alla ricaduta.

Nel momento in cui il ragazzo non è riuscito a mantenersi in una situazione ottimale nei confronti del profitto scolastico, della motivazione allo studio e della partecipazione alle attività scolastiche, si trova nella fase della ricaduta. In questo momento, l’insegnante può evitare di drammatizzare la situazione sottolineando come le ricadute facciano parte di un normale processo ciclico di evoluzione personale, va riutilizzato un approccio non direttivo e va analizzato nuovamente il rapporto tra costi e benefici. È necessario, inoltre, elaborare e comprendere i motivi che hanno portato al fallimento delle aspettative delle fasi precedenti, perché non si ripetano e perché queste difficoltà possano essere efficacemente affrontate. Se questo processo di comunicazione è ben gestito, il percorso ciclico del ragazzo si riattiverà a partire da una fase più avanzata rispetto alla precontemplazione.

Il tipo di intervento che è stato succintamente mostrato, permetterebbe di attivare un processo di gestione ottimale della relazione tra alunno ed insegnante, calibrando e trovando la congruenza tra la fase che sta attraversando lo studente ed il tipo di intervento praticato dal docente. La resistenza al cambiamento può essere una effetto collaterale dovuto all’uso di strategie inappropriate, che non tiene in conto dove si trovi la persona portatrice del problema (Miller e Rollnick, 1991). Preparare le basi della motivazione allo studio ed al cambiamento, avviare e sostenere le azioni efficaci, elaborare insieme piani e soluzioni, creare un rapporto ottimale tra docenti e discenti, permette di accrescere nei ragazzi la fiducia in se stessi e di creare le basi per eventuali interventi su problematiche differenti.

 

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[1] Bandura, 1997; trad. it. 2000, p. 22.

 

[2] Lepri e Stolfa, 2004, p. 145.

PSICOLOGO OLBIA - PSICOTERAPEUTA OLBIA

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